Oggi la maggior parte degli italiani condivide l’idea che la pasta debba essere cotta al dente. L’espressione, intraducibile in altre lingue, evoca un elemento distintivo della cultura gastronomica italiana: la pasta non va cotta troppo e deve rimanere compatta sotto i denti, sentirsi bene quando si mastica.
Il gusto della pasta al dente non risale al tempo dei tempi, ma è un frutto della modernità. I ricettari del Medioevo e del Rinascimento consigliavano di cuocere la pasta molto a lungo, addirittura qualche ora, per ammorbidirla e renderla collosa. In quegli stessi ricettari, destinati alle classi alte, la pasta normalmente non era consigliata come piatto a sé, ma come accompagnamento della carne: per esempio Bartolomeo Scappi, il più celebre cuoco italiano del Cinquecento, propone i “maccheroni alla romanesca” per coprire – è proprio la sua espressione: coprire – un piatto di “anatre domestiche allessate”.
Le cose cambiano fra XVII e XVIII secolo: nei ricettari si comincia a trovare l’indicazione di ridurre i tempi di cottura, e alla fine bloccarla con un getto di acqua fredda, per mantenere soda la pasta. Questo è un uso che si sviluppa soprattutto a Napoli, fra i banchi di street food che offrono piatti di pasta da consumare velocemente sul posto. La situazione ideale per apprezzare il nerbo e la consistenza del prodotto. Ma qui la pasta non è più uno sfizioso accompagnamento di lussuosi piatti di carne. È pasta e basta, condita solo con un po’ di formaggio. Era questo l’uso popolare – la pasta come piatto a sé – e non è certo un caso che la consuetudine del “piatto di pasta” si sia affermata, in Italia, contemporaneamente al gusto per la cottura al dente.
In altri paesi, l’uso delle cotture prolungate è continuato fino a oggi: così si fa in Francia, in Germania, in Inghilterra. In questi stessi paesi è rimasta la consuetudine di servire la pasta per accompagnare altre vivande, soprattutto carne. Le due cose (pasta molto cotta; pasta come contorno) evidentemente viaggiano assieme.
Sul finire del XIX secolo Pellegrino Artusi (padre della cucina italiana moderna) accoglie l’uso napoletano e lo propone a tutti gli italiani. Anche in questo caso, come in tanti altri, è stata la tradizione popolare a orientare il gusto collettivo degli italiani. Gli spaghetti “cacio e pepe” oggi si vogliono ben sodi e al dente.